E’ stato chiesto l’avviso di questo Ministero in ordine alla posizione dell’ex sindaco di un comune, condannato alla pena di un anno e quattro mesi per il delitto di cui agli artt. 110 (concorso di persone nel reato) e 479 (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici) c.p.
In particolare, viene chiesto di conoscere in merito alla portata dei delitti di cui alla lettera d) dell’art. 10, comma 1, del decreto legislativo n. 235/2012 che, prevedendo la condanna per un delitto al quale si applicano le circostanze aggravanti descritte dall’art. 61, comma 9 del c.p., sembrerebbe evidenziare che, ove nella sentenza non siano contenute tali circostanze, la condanna inferiore ad anni 2 di reclusione e per delitti non ricompresi nella lettera c) del richiamato art. 10 del d.lgs. 235/12, non possa costituire condizione ostativa alla candidabilità dell’amministratore condannato.
Al riguardo, con nota prot. 5188 del 22/04/2021, si è osservato quanto segue.
Come è noto, l’art. 10, comma 1, lettera d), del citato decreto legislativo, dispone che non possono essere candidati alle elezioni comunali e non possono comunque ricoprire la carica di consigliere comunale “coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva alla pena della reclusione complessivamente superiore a sei mesi per uno o più delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio diversi da quelli indicati nella lettera c)”.
Come chiarito dalla giurisprudenza formatasi sotto la vigenza dell’identica disposizione contenuta nell’abrogato art. 58, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, si tratta di “una norma di chiusura, volta ad includere nell’area della norma inabilitante, aperta e residuale, tutti i comportamenti non specificamente previsti, ma ugualmente lesivi dell’interesse protetto, con la conseguenza che la predetta causa ostativa impedisce l’assunzione di pubblici uffici elettivi da parte di soggetti che a qualsiasi titolo siano rimasti implicati, con una condotta penalmente rilevante, nella commissione di illeciti penali commessi con abuso di poteri e violazione di doveri inerenti ad una pubblica funzione e ad un pubblico servizio” (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza 28 aprile 2012, n. 2485; Corte di Cassazione, Sezione I Civile, sentenza 14 febbraio 2004, n. 2896).
Tale orientamento giurisprudenziale è stato recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione (sez. I civ. 7/10/2020 n. 21582), nella specie la S.C. ha ritenuto riconducibile all’ipotesi normativa di cui alla lett. d) il delitto di abuso d’ufficio in forma tentata aggiungendo che detta fattispecie era astrattamente rientrante anche nella lettera c) della norma in esame.
Pertanto, non è dubbio che nella previsione di tale norma di chiusura rientri anche il reato previsto dall’art 479 del codice penale - per il quale l’amministratore in argomento è stato condannato con sentenza definitiva - nella cui materialità è già compresa la violazione dei doveri inerenti alla funzione di pubblico ufficiale, ragione per cui al reato medesimo non risulta applicabile l’aggravante contemplata dall’art. 61, comma 1, n. 9, del codice penale (cfr. Corte di Cassazione, Sezione I Civile, sentenza 27 luglio 2002, n. 11140).
Conclusivamente, alla luce delle considerazioni che precedono, la condanna di cui in premessa, anche se non contenente esplicitamente le circostanze aggravanti di cui all’art. 61 del c.p., costituisce condizione ostativa alla candidabilità dell’amministratore condannato.
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